Anatolij Kuznecov, Babij Jar, Adelphi
«Dio sia lodato, è finito questo regime di pezzenti» dice nonno Semerik, che il potere sovietico lo odiava con tutta l’anima, quando i tedeschi occupano Kiev nel settembre del 1941. «Ora si comincia a vivere». Tolik ha solo dodici anni, ma non gli ci vorrà molto per capire che le speranze del nonno sono vane. Ben presto Babij Jar, il burrone nei pressi di Kiev, diventerà la tomba della popolazione ebraica, e poi di zingari, di attivisti sovietici, di nazionalisti ucraini, dei calciatori della Dinamo che si sono rifiutati di farsi battere dalla squadra delle Forze Armate tedesche, di chiunque abbia rubato del pane. E mentre da Babij Jar giunge senza tregua il crepitio delle mitragliatrici, mentre gli attentati organizzati dagli agenti dell’nkvd devastano la via principale e persino la venerata cittadella-monastero, mentre cominciano le deportazioni verso la Germania, Kiev si trasforma in una città di mendicanti a caccia di cibo. Per Tolik, che aveva conosciuto la terribile fame staliniana, non potrebbe essere più chiaro: tedeschi e sovietici si stanno scontrando «come il martello e l’incudine», e in mezzo ci sono i «poveri diavoli» – e lui, in preda a un «mare di disperata angoscia animale». L’unica via d’uscita è assecondare la furibonda vitalità che lo pervade, ricorrere a ogni espediente per sopravvivere in barba a tutto, crescere. Crescere per odiare chi trasforma il mondo in una prigione, in un «frantoio per pietre», per denunciare violenze e menzogne. Anche le ultime, atroci: dopo la liberazione di Kiev, Tolik e sua madre, in quanto persone «vissute sotto l’occupazione», verranno marchiati come «merce di terza scelta» – e il massacro di Babij Jar cancellato.