Il 12 settembre 1919 Gabriele D’Annunzio partendo da Ronchi giungeva a Fiume con circa duecento legionari, i quali sarebbero diventati il mese successivo più di tremila. Si trattava di un’azione armata condivisa da importanti settori dell’Esercito italiano, come da diversi ambienti politici e massonici. L’impresa fiumana nasceva dall’insoddisfazione per le questioni territoriali rimaste irrisolte dopo il primo conflitto mondiale tra italiani e jugoslavi, questi ultimi appoggiati da francesi e statunitensi. «Vittoria nostra, non sarai mutilata»: con questa frase pubblicata sulle colonne del Corriere della Sera (24 Ottobre 1918) Gabriele D’Annunzio denunciò la grave situazione che si venne a creare durante le trattative di pace. Attorno a lui andò formandosi un’opinione pubblica favorevole a difendere i diritti dell’Italia. Un fatto che spesso viene ignorato dalla storiografia riguardo a Fiume è la presa di posizione del 30 ottobre 1918, quindi a guerra non ancora finita, del Consiglio Nazionale Italiano di Fiume presieduto dal medico e scienziato Antonio Grossich. Il Consiglio emanò quel giorno un proclama, nel quale si leggeva che in base al principio di autodeterminazione dei popoli, sostenuto soprattutto dal presidente statunitense Thomas W. Wilson, i fiumani chiedevano di essere annessi al Regno d’Italia. Purtroppo per i fiumani, questa legittima aspirazione trovò impreparato il governo italiano. In realtà l’Italia era entrata in guerra nel maggio 1915 stipulando un mese prima il Patto segreto di Londra, nel quale non aveva chiesto, in caso di vittoria sull’ Austria-Ungheria, il porto di Fiume. Riguardo alle ragioni di tale rinuncia italiana su una città, la cui popolazione era al 65% formata da italiani e dove l’italiano era la lingua ufficiale conosciuta da croati, ungheresi e austriaci, non ci soffermiamo; di fatto però ci fu questo precedente diplomatico che complicò le trattative di pace nel primo dopoguerra, non solo a Fiume ma nel resto dell’Adriatico orientale.
Gli alleati inglesi, francesi e statunitensi non volendo favorire una più vasta espansione italiana nella zona del bacino adriatico, favorirono la formazione di uno stato dei Serbi Croati e Sloveni, che qualche anno dopo venne chiamato Regno di Jugoslavia. Le aspirazioni jugoslave non si limitavano a rivendicare tutta la Dalmazia e Fiume, ma erano propense a ottenere persino l’Istria e la città di Trieste. Era l’epoca dei nazionalismi e intorno a queste problematiche di confine convergevano non solo gli interessi politici, economici e militari dei regni d’Italia e di Jugoslavia ma di molti altri Stati. Gabriele D’Annunzio raccolse in definitiva l’invito dei fiumani ad aiutarli contro le mire jugoslave, i cui rappresentanti avevano sin dal 29 ottobre 1918 occupato il Palazzo del Governatore con il beneplacito franco-inglese. I fiumani Antonio Grossich, Salvatore Bellasich, Riccardo Gigante, Giovanni Host Venturi e tanti altri si schierarono con D’Annunzio per l’annessione. A Fiume esisteva anche una tradizione autonomista il cui capo indiscusso era Riccardo Zanella, ma in quel primo periodo tutti erano favorevoli al poeta abruzzese e quindi per l’annessione all’Italia. Ci è noto come in Italia non sia mai stato facile affrontare storicamente la questione fiumana, perché spesso confusa col movimento fascista.
L’Impresa di D’Annunzio sorgeva idealmente sulle ali del Risorgimento e per molti versi riecheggiava nelle parole e nell’azione l’irredentismo, che aveva dato molti morti per la causa italiana delle terre giuliane. Il triestino Guglielmo Oberdan fu il primo martire dell’irredentismo, un movimento che aveva saldi ideali repubblicani di giustizia sociale, di libertà e di rispetto tra i popoli. Dopo secoli di dominazione straniera gli italiani, sin dai moti risorgimentali contro gli austriaci del 1848, rialzavano la testa per costruire un proprio Stato su base etnica, culturale e ideale. La stessa prima guerra mondiale veniva considerata da molti come la quarta guerra del Risorgimento. Se non si ricordano questi fatti, a mio avviso, non si può comprendere la prima fase dell’Impresa di Fiume, la genuinità dello spirito nazional patriottico che la contraddistinse. Non ci potevano essere in quel periodo particolari legami e intese tra dannunzianesimo e fascismo e cercare di vederle risulta una forzatura. Certamente Mussolini come anche Marinetti si recarono a Fiume per sostenere D’Annunzio, ma non ci rimasero.
Dopo la “Santa Entrata” del 12 settembre il governo italiano, tuttavia, fece pervenire ben tre proposte a D’Annunzio, ma senza successo. La prima proposta fu fatta al poeta-soldato dall’ammiraglio Umberto Cagni, la seconda dal generale Saverio Grazioli e Francesco Salata e infine la terza dal generale Pietro Badoglio, che chiedeva a D’Annunzio di lasciare la città per sottoporla, d’intesa con gli alleati, a protezione italiana. Pur accogliendo i fiumani la proposta compromissoria del “modus vivendi” di Badoglio, D’Annunzio non fu d’accordo ad abbandonare Fiume. La risposta del governo Nitti non si fece attendere: seguì l’inasprimento del blocco navale e terrestre su Fiume, che mise in seria difficoltà il movimento dannunziano causando alcune defezioni tra i nazionalisti. Nel frattempo giunsero anche delle proposte da parte alleata di costituire uno Stato fiumano indipendente e distinto sotto l’egida della Società delle Nazioni. Dopo il continuo fallimento delle trattative con il governo italiano Gabriele D’Annunzio decise di dare vita alla “Reggenza Italiana del Carnaro”, che fu proclamata solennemente l’8 settembre 1920. Questa seconda parte dell’Impresa si distinse molto dalla prima, in cui le forze nazionaliste si erano schierate con D’Annunzio. Dopo che Giovanni Giuriati, Luigi Rizzo e altri lasciarono Fiume, ci fu la svolta politica del sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, il quale con D’Annunzio elaborò una moderna costituzione, che fu alla base della pur breve esistenza della “Reggenza”.
A Fiume prese allora sempre più vita l’idea dell’immaginazione al potere e della partecipazione popolare alle vicende del nuovo Stato dannunziano. Vari rivoluzionari assieme ad artisti, avventurieri, semplici idealisti riempirono le cronache dei giornali con le loro gesta. Figure come Guido Keller, Giovanni Comisso, Leon Kochnitzky, Mario Carli fanno ancora oggi parlare di sé. Il laboratorio dannunziano rimane per molti versi un’ esperienza di vita intensa, animata da coraggio, eroismo e amore per un’Italia più nobile e bella. Naturalmente vi furono aspetti negativi e drammatici come i fatti sanguinosi del “Natale di Sangue”. L’Impresa venne soffocata nel sangue dopo una battaglia fratricida.
Il governo Giolitti volle testardamente onorare gli impegni presi, il 12 novembre 1920, col Trattato di Rapallo, che decretava oltre alla rinuncia della Dalmazia (solo Zara e l’isola di Lagosta furono concesse all’Italia) lo Stato Libero di Fiume, alla cui guida si sarebbe posto l’autonomista Riccardo Zanella. Ci furono ben 54 morti negli scontri tra il 24 e il 28 dicembre 1920 e oltre 200 feriti. D’Annunzio considerata la drammatica situazione si arrese, infine, al generale Caviglia e lasciò Fiume il 18 gennaio 1921, dopo aver dato le consegne ai fiumani, in particolare a Riccardo Gigante (i cui resti sono stati rinvenuti in un bosco di Castua, a pochi chilometri da Fiume, dove fu ucciso il 4 maggio 1945 dai partigiani di Tito, e sui quali resti l’esame del DNA scorso ha confermato l’identità) e ad Antonio Grossich. L’azione armata voluta da Giolitti contro D’Annunzio, non fu dovuta solo a questioni di equilibri internazionali, ma anche per timore di una ribellione antigovernativa che sarebbe potuta partire da Fiume. Non fu così. Ad avvantaggiarsi della nuova situazione fu invece Mussolini che, alla fine dell’ ottobre 1922, marcerà vittorioso su Roma a capo dell’inarrestabile movimento fascista. D’Annunzio, sebbene non contrario al fascismo, fu in pratica relegato nella splendida residenza del Vittoriale fino alla sua scomparsa. Il poeta-soldato non volle più intraprendere alcuna azione politica di rilievo. Morendo D’Annunzio il 1 marzo del 1938, non poté assistere al crollo dell’Italia fascista durante la seconda guerra mondiale e alle gravi conseguenze che colpirono Fiume. Un fatto è certo: D’Annunzio non aveva mai digerito l’alleanza di Mussolini con Hitler. In conclusione considerare l’Impresa di Fiume, dopo cento anni, ci pone all’attenzione un’affascinante utopia, la “Città di Vita”, e ci spinge a rileggere e a riconsiderare una pagina di storia patria suggestiva, complessa, irripetibile.
Purtroppo per la città di Fiume avvenne, dopo la Seconda guerra mondiale, l’occupazione militare da parte jugoslava. Le violenze e la politica anti-italiana dei comunisti jugoslavi provocarono il successivo esodo di oltre 38.000 italiani e la città cambiò nome e identità. Oggi poco rimane di italiano a Fiume, tuttavia vi sopravvive una comunità di circa 3.000 connazionali, che custodisce il dialetto fiumano e promuove la cultura italiana in città; come anche esiste a Roma un Archivio Museo della città di Fiume costituito in esilio sin dal 1963, che conserva memorie autentiche di una grande e nobile comunità, che il passare degli anni e la pesante cappa di silenzio imposta dalla cultura dominante non ha potuto cancellare.
Marino Micich – Direttore dell’Archivio Museo Storico di Fiume – Mediterraneo e dintorni