Varlam Salamov, I racconti della Kolyma, Adelphi, 1995
Un libro che appartiene al medesimo filone di Se questo è un uomo di Primo Levi e Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn. Una testimonianza dall’inferno della terra, da uno di quei microcosmi di dannazione, che il Novecento, con le sue utopie di razionalità scientifica, progresso e sviluppo tecnologico, è stato generosamente in grado di organizzare.
Salamov (1907-1982) studiò diritto all’università di Mosca, ma la sua vocazione era la letteratura. Negli anni Trenta il regime staliniano lo condannò, per motivi a dir poco impalpabili e pretestuosi, ai lavori forzati nelle miniere della Kolyma, in Siberia.
La Kolyma è in realtà una grande industria sovietica, dove i detenuti lavorano come schiavi, senza diritti e senza retribuzione.
Salamov riuscì a sopravvivere, seguendo i corsi da infermiere, aiutato da un medico detenuto, A. M. Pantjuchov.
La pubblicazione di questi racconti fu, anche in anni recenti, tribolata e ostacolata con ogni mezzo. In essi, con grande forza espressiva, Salamov sa renderci la durezza dei lager e delle prigioni sovietiche, le umiliazioni, le botte, la fame, la vita elementare a cui erano costretti i prigionieri. Basta un niente, un’esclamazione ad alta voce, un’osservazione inoffensiva, persino il silenzio, per essere fucilati.
Ne esce l’affresco di un universo estremo, che non impedisce tuttavia si facciano strada gli elementi principali del cuore umano, sia positivi che negativi: la crudeltà, la delazione, l’oppressione, il torbido esercizio del potere, ma anche la solidarietà, la bellezza, il gusto del lavoro (in ospedale) ben svolto. La farsa del procedimento giudiziario, le accuse surreali ed inventate, la figura incombente del giudice istruttore, che blandisce e minaccia l’imputato, danno concretezza e tangibilità ai peggiori incubi kafkiani.
Sulla realtà della Kolyma, così come descritta da Salamov, lo stesso Solzenicyn ebbe a dire: “L’esperienza di Salamov nei lager è stata più amara e più lunga della mia, e con rispetto riconosco che proprio a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager”.