Foiba di Zavni (Foresta di Tarnova), la mattanza dei Carabinieri
tratto da: Quotidiano nazionale, settembre 2004,
“Il tricolore a Trieste”, articolo di Lorenzo Bianchi
Per dieci anni ha coltivato la speranza. Per dieci anni ha acceso una piccola candela sul davanzale di una finestra, il cuore in gola, il respiro accelerato. Era un filo sottile, il tentativo disperato di segnalare al marito la strada di casa. Quel minuscolo punto luminoso avrebbe potuto guidarlo nelle tenebre che lo avevano ingoiato dall’altipiano di Tarnova a Gorizia.
Ernesta Stame, moglie del carabiniere Paolo Bassani è una donna ostinata e fiduciosa. Prima di sparire, la sera del 18 maggio 1945, durante i quaranta giorni di occupazione dei partigiani jugoslavi, il militare era riuscito a impietosire un carceriere e gli aveva affidato un biglietto laconico, ma rassicurante: “Ti saluto e spero tanto di poter ritornare. Non pensare a male, io sto bene. Tanti saluti e baci. Tuo marito Paolo”.
Ernesta, caparbia e fiduciosa, non “ha pensato a male”. Ha acceso la fiammella per illuminare il sentiero dell’improbabile ritorno. Non sapeva che Paolo giaceva sul fondo della foiba di Zavnj, a 150 metri di profondità, assieme a 17 colleghi e a tanti altri, civili inconsapevoli, partigiani cattolici sloveni, fascisti italiani, vittime di una puilizia etnica e politica feroce, sistematica, organizzata.
Il destino dei diciotto carabinieri della stazione di via Barzellini, inghiottiti nel nulla a guerra persa e ampiamente finita è il paradigma della sciagura collettiva. Dopo l’8 settembre 1943 erano rimasti nel presidio, proprio di fronte al carcere, quaranta militari agli ordini del tenente Tonarelli. Avevano ancora la scritta RR CC, Reali Carabinieri sugli elmetti.
I tedeschi li tollerano a fatica. Non li utilizzano per le operazioni delicate, come i rastrellamenti di partigiani. Delegano ai militari dell’Arma la funzione inferiore di contrastare i ladri e la borsa nera dei generi alimentari, il piccolo traffico dei contadini che vendono in nero polli, grano, carne e verdura sottratti al razionamento.
Il primo maggio entra in città il IX corpo sloveno. Cominciano le retate sistematiche. Vengono arrestate 940 persone. Di 665 non si saprà più nulla. Restano solo le memorie dei parenti disperati e i nomi incisi sul lapidario del Parco della Rimembranza. I diciotto carabinieri rimasti nella tenenza di via Barzellini finiscono nelle celle del carcere. Il diciotto maggio vengono bastonati o spinti a forza a sbattere la testa contro i muri del penitenziario e caricati su un camion. Il mezzo si dirige lentamente verso l’altipiano. Da allora solo silenzio sulla loro sorte. Un vuoto opprimente che si infrange solo nel 1994. Uno storico, Marco Pirica, decide di aggrapparsi all’unica, esile, memoria storica che è rimasta, il parroco di Tarnova. Il prete lo indirizza a una Gostilna, una trattoria. Una donna di 84 anni, Elena Rjavec, suggerisce di sentire un partigiano di Nenici, un certo Antonio Winkler, settanta anni. L’uomo ha abitato a Gorizia per un ventennio e parla perfettamente l’italiano. Pirina alza una cortina fumogena sul vero scopo della visita. Finge di essere interessato alla sorte di un gruppo di dispersi sloveni. Winkler abbocca.”Ma lei non sa nulla dei carabinieri?”, si stupisce.
Il bosco è fitto. L’ex guerrigliero ha la strada scolpita nella memoria. Indica i luoghi, il tragitto del camion, “avevano i polsi legati con filo di ferro rinserrato con le pinze”, la buca nella quale è stato sepolto un finanziere che è crollato per terra a venti metri dalla bocca del pozzo naturale che ha ingoiato i condannati a morte. Pirina ha annotato il racconto del partigiano, parola per parola: “Li feci salire all’imbocco della foiba. Lì c’era la squadra che li buttava nell’abisso. Qualcuno era vivo. Ad altri sparavano prima di sospingerli nel vuoto. Sono quasi cinquanta anni che non vengo più in questo posto. A quelli che uccidevano avevano dato una bottiglia di rum a testa. Dovevano stordirsi. A noi, che avevamo fatto una faticaccia per trasportarli fin lassù, non toccò nulla, neppure un goccio”. La foiba di Zavnj è stata recintata con una staccionata di legno. C’è una croce che sovrasta un altare minuscolo. Su una targa è riportato un verso ecumenico e generico di una poetessa slovena: “Viandante che passi ascolta le grida di chi è stato gettato qui dentro”. Nella vecchia caserma di via Barzellini la targa dedicata ai carabinieri rastrellati è confinata in un corridoio interno che immette negli uffici. Ai familiari stretti è stata riconosciuta la pensione di guerra, quattrocentoquindicimila vecchie lire. Ai figli le provvidenze che spettano agli orfani del conflitto. Ora si aggiungono un distintivo e un certificato firmato da Ciampi. Clara Morassi, 78 anni, figlia dell’ex vicesindaco di Gorizia spiega. con velata ironia, che possono fregiarsene le famiglie degli infoibati fino alla sesta generazione. Pirina non riesce a capacitarsi del silenzio sloveno e della disparità di trattamento rispetto agli austriaci: “Loro hanno avuto un elenco di 5400 nomi. Noi nulla. Io sono convintissimo del fatto che sia giusto chiudere con il passato, riconoscendo però a tutti la dignità della memoria”.
Gli scomparsi sono diventati il centro della sua seconda vita. Gli sono costati minacce telefoniche, “anche 5 o 6 al giorno”, di italiani e sloveni, e un cappio lasciato sulla porta di casa. Nel 2000 gli hanno sabotato l’auto. Una mano ignota ha messo fuori uso i fili elettrici che segnalano i guasti ai freni e ha tagliato quasi completamente la cinghia del ventilatore. “Attenzioni” inutili.